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venerdì 19 febbraio 2016

Messengers - Starwolf – Pt. II: Novastorm (2015)

Anticipato dal pregevole EP “Captain’s Loot”, sul finire del 2015 i power metallers tedeschi Messengers irrompono nuovamente sul mercato discografico, pubblicando questo interessante “Starwolf – Pt. II: Novastorm”, naturale prosieguo musicale del notevole “Starwolf – Pt. I: The Messengers”, rilasciato nel 2013 sempre per la fedele Massacre Records.
L’album precedente aveva permesso alla band di raccogliere notevoli soddisfazioni. Per questa ragione, anche il nuovo album si muove sulle stesse coordinate musicali, ormai tipiche del combo teutonico, senza tuttavia scadere nella ripetizione di idee già ascoltate nei dischi precedenti.
La regalità insita nel sound dei Messenger è subito espressa dalla potente “Sword Of The Stars”, opener fiera e maestosa nel suo incedere operistico, così come anche rabbiosa e granitica nel suo sviluppo, comunque elegante nei riff macinati dalle due asce, nonché melodica in un refrain cadenzato e massiccio, che ne garantisce l’ottimo valore complessivo.
Non tradendo la fede del power metal guerresco, i nostri incastonano la dirompente “Privateer’s Hymn”, inno piratesco e battagliero, caratterizzato da velocità scandite e controllate da un sezione ritmica impeccabile, sulle quali si adagiano le squisite melodie chitarristiche e vocali, che sembrano voler rievocare il classico stile di gruppi come Running Wild ed Alestorm.
Leggeri echi dei migliori Metallica (quelli dell’epoca di “Ride The Lightning” in questo caso), rendono oscura l’atmosfera della successiva “Wings Of Destiny”, che dopo pochi istanti non tarda ad esplodere nuovamente con tutta la carica del power tipicamente tedesco. Anche in questa occasione un ritornello semplice e melodico riesce appieno nel compito di mantenere viva l’attenzione del fruitore.
Più rilassata e sognante risulta invece essere la pacata “Frozen”, volta rendere maggiormente dinamica la proposta musicale dei Messenger, che pochi minuti più tardi tornano su rocciosi sentieri con la feroce “Novastorm”: prelibato episodio di puro power metal, completamente controllato dall’eccellente lavoro chitarristico affidato a Patrik Deckarm e a Frank Kettenhofen. Anche in questo frangente il combo germanico non disdegna di dimostrare la propria devozione verso gli insegnamenti ricevuti dai connazionali e storici Running Wild.
La furia della band non concede tregua nella potente “Pleasure Synth”, seguita a ruota dalla rasoiata piratesca di “Captain’s Loot” (curiosamente non inclusa nell’EP apripista, sebbene correlato dal medesimo titolo).
La band torna poi a viaggiare su velocità elevate con la diretta “Warrior’s Ride”, caratterizzata ancora dalle ottime armonie vocali condotte dall’aspra e carismatica voce del bravo Francis Blake.
La successiva “Wild Dolly”, mostra un approccio maggiormente Hard Rock di stampo ottantiano, risultando molto piacevole e spianando la strada alla lunga “Fortress Of Freedom”, caratterizzata da un coro epico ed incisivo.
A concludere l’opera nella versione Digipak, arrivano poi la piacevole e ancora Rockeggiante “Keep Your Dreams Alive”, abile nell’alternare fasi arpeggiate ad altre maggiormente heavy e la buona “In Morgan We Trust”, entrambe incluse nell’album come bonus tracks, in grado di aumentare il valore di un lavoro che conferma la classe di una band forse non molto conosciuta dal grande pubblico, ma assolutamente da  tenere d’occhio.


Genere: Power Metal
Paese: Germania
Qualità: 320 kbps


TRACKLIST

01. Sword Of The Stars
02. Privateer's Hymn
03. Wings Of Destiny
04. Frozen
05. Novastorm
06. Pleasure Synth
07. Captain's Loot
08. Warrior's Ride
09. Wild Dolly
10. Fortress Of Freedom 



 
 

giovedì 18 febbraio 2016

Kampfar - Profan (2015)

La perfezione è un’utopia che in molti cercano di delineare lungo la vita attraverso l’idealizzazione di un raggiungimento conoscitivo, sociale, culturale e/o artistico. I Kampfar giungono al traguardo del settimo album con un’invidiabile successo: una discografia inattaccabile che rasenta quell’utopica perfezione accennata poco fà. Se la dipartita nel 2010 di Thomas aveva fatto perdere un pizzico di interesse da parte dei fans, quelli affezionati più alla persona che al progetto in quanto tale, l’approccio compositivo del gruppo non è mutato di una sola virgola e l’anno successivo Mare aveva fatto esplodere applausi a scena aperta, confermando quanto di buono ci sia nel gruppo piuttosto che nel singolo. A discapito di una costante avanguardia sonora (concedetemi il termine volutamente forzato) pur non avendo mai stravolto il circuito underground, non avendo nemmeno mai creato l’album perfetto al cristallino i Kampfar da sempre risultano inattaccabili sotto ogni aspetto; mai un album uscito “male”, mai un calo di creatività e sopra ogni cosa mai deluso le aspettative dei propri fans, che ad ogni capitolo, rimangono a bocca aperta per la qualità riscontrabile su ogni singola composizione.
Certamente ripresentarsi sul mercato ad un anno o poco più di distanza dal precedente Djevelmakt è azzardato; tutti noi sappiamo che per avere un minimo di credibilità e di ispirazione un ciclo vitale che porta al compimento di un nuovo traguardo necessita di tempo ed attenzione, che equivale a due o tre anni vitali se in mezzo ci mettiamo il/i tour promozionale/i che sono necessari al mantenimento in vita di un gruppo. Profan nasce dalle ceneri di Djevelmakt implementando e migliorando la proposta, ponendosi probabilmente al di sopra ti ogni album composto da qui a Kvass. Esageriamo? Ascoltare per credere.
Sappiamo perfettamente che il sound dei Kampfar oggi è meno violento e oltranzista rispetto al primo periodo, sappiamo ancora meglio come le tecnologie moderne e le influenze che vanno ad inserirsi in questo o quel contesto culturale-musicale modellano i risultati finali in maniera più o meno preponderante. Proprio per questo i Norvegesi sono identificabili a livello metaforico come una spugna, dove più assorbono esperienza, sfumature e visioni differenti; più queste vengono afferrate e fatte proprie senza andare contro la coerenza che sta alla base del progetto più si può optare per il concetto di "progressione sonora". Studiare, analizzare, comprendere e successivamente migliorarsi; questo è il processo che costruisce le fondamenta della band; questo concetto semplice è “piccolo” ma abbastanza perché se applicato a questo caso specifico faccia comprendere quanto i nostri meritino rispetto incondizionato.
Profan ci viene introdotto da Gloria Ablaze, una canzone centrata in ogni minimo dettaglio con quella partenza in quinta con un riff maligno ed inattaccabile che lascia spazio man mano ad una atmosfera glaciale e nordica come solo i Kampfar riescono a creare, attraverso cori ed aperture di altissima qualità con il trade-mark stampato sopra a fuoco. Come riscontrabile in molti passaggi lungo la tracklist sono le clean vocals a donare l’effetto sorpresa, pur non essendo una novità, risultando avvincenti e azzeccate al 100%; senza questo specifico tocco di “epicità norrena” avremmo ipoteticamente avuto solamente brani zoppicanti, ma qui sbagliare è impossibile. La scaletta si snoda attraverso canzoni che hanno una loro precisa identità, ognuna di queste ha valore e senso di esistere, anche nei casi paradossali come la Titletrack e Pole in the Ground che possono essere definite “standard” per il gruppo, si riesce inevitabilmente a lasciare un segno indelebile confermando il certificato D.O.P..
Lo sguardo rivolto a nuove sperimentazione viene piuttosto sottolineato dalle magistrali Icons, Skavank e Daimon, un trittico al limite del comprensibile che innalza Profan da buono ad altisonante. La prima viene aperta da un leggero andante orchestrale prima di sfociare in una rabbia assassina pura e ferale, dove la parte centrale lascia intravedere sprazzi dei primi Gorgoroth e dei Taake che furono, combinati con Enslaved e Windir di un tempo oramai dimenticato poggia le basi nel remoto per innalzarle a futuro prossimo. Skavank dalla sua, attraverso i lunghi sette minuti e mezzo, ha la capacità di lasciarsi scoprire ascolto dopo ascolto, una rasoita nello stomaco che diventa il sussurro contemporaneo dei Mayhem che oggi tutti rimpiangiamo: inutile girarci intorno da 3:40 circa l’eco di De Mysteriis Dom Sathanas è palese, non prendiamoci in giro ragazzi.
Fortuna e sfortuna dei nostri è il venire dopo, ma omaggiare contemporaneizzando con questa classe è da applausi. Daimon, il singolo che ha lanciato i Kampfar sul loro primo video promozionale, è qualcosa di sublime, talmente evocativo lento e sinistro che spesso e volentieri viene da girarsi con la paura che qualcuno alle tue spalle sia li a osservarti nell’ombra. Il clean vocal magistralmente eseguito e la combustione degli intenti con le sovrastrutture create ha dello straordinario, da ascoltare in rigoroso silenzio senza perderci altre parole in merito. La parabola si chiude con Tornekratt che da descrivere risulterebbe più difficile che altro; cinque minuti di disperazione, urla e l’evocazione di un male interiore come in pochi riescono a tramutare in musica. Pare un ritorno al passato con gli stratagemmi di oggi amplificati e tolti dalle catene di un’incapacità compositiva primordiale; il brano perfetto per chiudere un album al limite dell’impeccabile.
Sovrastato da una cover magnifica creata dal genio di Zdzisław Beksiński Profan racchiude in sé tutto quello che oggi sono e devono essere Kampfar per continuare a troneggiare sul suolo dell’underground. Anche la produzione, seppur ipercompressa, riesce ad innalzarsi facendoci ascoltare ogni singolo strumento e mantenendo intatto quell’odore di putrido disgusto creato da sempre nel dischi dei Norvegesi; il tempo che scorre non deturpa la pietra miliare delle gesta dei morti viventi. Probabilmente fra dieci o quindici anni parleremo di altri dischi, loro e non, che han segnato un periodo storico come quello che stiamo vivendo ma oggi, in questo momento, mentre state leggendo, Profan è la colonna sonora perfetta per oltrepassare i confini della perdizione.


Genere: Pagan Black Metal
Paese: Norvegia
Qualità: 320 kbps 

TRACKLIST

01. Gloria Ablaze
02. Profanum
03. Icons
04. Skavank
05. Daimon
06. Pole in the Ground
07. Tornekratt  

lunedì 15 febbraio 2016

Myrath - Legacy (2016)

I Myrath hanno trovato la perfetta quadratura del cerchio e con “Legacy” si preparano a fare il botto. Il quarto album della band tunisina arriva dopo un escalation di successi ottenuti in ogni parte del globo grazie al Symphonic Oriental Metal di “Tales Of The Sands” del 2011. Con il nuovo lavoro viene compiuto un ulteriore passo in avanti a livello di songwriting, mescolando alla perfezione metal melodico, orchestrazioni figlie delle terre d’Arabia e passaggi strumentali ultratecnici. Il disco è composto da dieci pietre preziose, canzoni ricche di pathos ed emozioni, vocals travolgenti ed eleganti passaggi ritmici, il tutto sempre perfettamente dosato e concentrato nei brani.
Il temine prog accostato al sound dei Myrath è da prendere assolutamente con le pinze. Non aspettatevi cambi di tempo improvvisi, sbrodolate strumentali e momenti cervellotici, perché in “Legacy” tutto scorre fluido e gli inserti etnici sono utilizzati in modo talmente naturale da sembrare parte del genere da sempre. L’opener “Believer” è un pezzo maturo e solare, tra litanie corali ed aperture melodiche, mentre “The Needle” propone un intro cinematico degno dei Rhapsody, per poi esplodere con un riff serrato di scuola Symphony X. I Myrath, rispetto al passato, riescono a diversificare splendidamente gli arrangiamenti, non solo avvalendosi dei tipici inserti arabeggianti, ma sbalordendoci con fughe pianistiche perfettamente incastonate a synth più moderni, come nella hit “Through Your Eyes”. Capolavoro assoluto di “Legacy” e già song dell’anno per il sottoscritto, il mid tempo sinfonico “Endure The Silence”, contraddistinto da un arrangiamento perfettamente bilanciato tra musica classica ed elementi mediorientali ed un ritornello praticamente perfetto, di classe nonché esplosivo.
I Myrath, ormai sdoganati nel mercato discografico internazionale, hanno confezionato il proprio capolavoro, un disco solido, originale nella propria classicità ed ovviamente inconfondibile nella propria impronta orientaleggiante. Il tour con i Symphony X, che passerà anche dalle nostre parti, darà la possibilità ai fan di apprezzare “Legacy” anche dal vivo, catapultandoci tra i profumi, i colori ed i sapori delle terre d’Oriente sulle note delle loro magnifiche canzoni.


Genere: Symphonic Oriental Metal
Paese: Tunisia
Qualità: 320 kbps


TRACKLIST

1. Jasmin (1:48)
2. Believer (4:32)
3. Get Your Freedom Back (3:57)
4. Nobody's Lives (5:43)
5. The Needle (5:06)
6. Through Your Eyes (5:37)
7. The Unburnt (4:36)
8. I Want To Die (4:39)
9. Duat (5:26)
10. Endure The Silence (4:44)
11. Storm Of Lies (4:35) 


 
 

mercoledì 10 febbraio 2016

Dream Theater - The Astonishing (2016)

E fanno tredici. Ogni volta sempre più complicato, nel compito – difficile – di superarsi. Obiettivo che può essere uno sprone ma allo stesso tempo un limite, perché focalizzandosi solo sul proprio mondo si rischia di diventare autoreferenziali fino al plagio di sé stessi, di perdere di vista ciò che gira intorno, che nel bene e nel male un po’ di carburante (per la mente) lo offre sempre.
John Petrucci è il regista dei DT, non sorprende quindi che sia stato lui a introdurre agli altri l’idea – e lo sviluppo – che sta alla base di The Astonishing, temerario concept che arriva quasi 17 anni dopo Metropolis Pt.2 – Scenes from a Memory – il precedente disco a soggetto – e si dipana su doppio CD tra fantasy, fantascienza distopica, gioco di ruolo. Tra le passioni del chitarrista, del resto, ci sono Star Wars, Game Of Thrones, Lord Of The Rings, Hunger Games, un bel frullato di fantastico degli ultimi 100 anni. Inevitabile che lo sfondo fosse archetipico, da medioevo prossimo venturo dettato da un tempo – siamo nel 2285 – e un continente americano dove il dispotico Lord Nafaryus, signore del Great Northern Empire Of The Americas, tiene sottomessa la popolazione anche grazie ai NOMAC, droni-controllori volanti di forma sferica che fanno minacciosa mostra di sé sulla copertina del disco. Macchine nate, i NOMAC, come risultato della ricerca per la generazione della musica perfetta, e diventati al contrario il simbolo dell’unico modo di intrattenimento privato di ogni umanità. A contrastarlo ci sono gli appartenenti alla Rebel Militia insediata nella città di Ravenskill, capeggiati da Arhys, convinto che il fratello Gabriel, che possiede il dono di creare musica, sia il predestinato capace di cambiare le sorti della storia del suo popolo.
Una storia intricata, ricca di risvolti e sfumature. Ma non è meno complessa la strategia che ha portato al giorno della release del disco, album che sarà reso disponibile in svariati formati (CD, vinile, edizione limitata): una parte del sito web della band dedicata al graduale disvelamento di personaggi, caratteri, geografia dei luoghi, video, e l’apertura delle iscrizioni alla newsletter che si rifà alle due fazioni. Con grafica adeguata, in stile simil-Assassin’s Creed.
Questa la base di partenza sulla quale si inseriscono i personaggi – heroes & villains – dell’una e dell’altra fazione che battagliano per la libertà o per affermare lo status quo. Sono state pensate perfino le mappe. Perché è esattamente così che John Petrucci l’ha studiata: ci ha messo quasi tre anni, tempistica che giustifica l’idea che The Astonishing superi lo stesso concetto di rock opera per divenire lo show estremo a tutto tondo, interdisciplinare e multimediale: realizzabile in forma di disco come primo assaggio, ma in seguito rappresentazione teatrale, probabile gioco, possibile film, magari libro e chissà che altro permetterà la tecnologia o gli investitori. Insomma, una grande macchina. Per stupire, per fare soldi, per soddisfare velleità artistiche: decidete voi, che siate dalla parte degli irriducibili disposti a perdonare tutto o stiate sulla sponda dei fan che, pur rimanendo fedeli, non hanno fatto a meno di notare le incrinature che negli anni hanno segnato il totem.
Non manca come sottotesto una riflessione sul mondo della musica. Prendendo spunto dalla odierna situazione che piaga il mondo del lavoro, nella quale le maestranze vengono sostituite da robot, Petrucci si domanda se un giorno la tecnologia demanderà alle macchine l’esecuzione della musica. E cosa ne deriverà. Domanda che rischia di ritorcersi contro chi la formula, perché laddove il chitarrista rivendica – parlando con Rolling Stone – di suonare insieme ai compagni vere chitarre, tastiere e batterie, è altresì vero che i Dream Theater sono spesso al centro di critiche che li vogliono musicisti tanto preparati tecnicamente quanto esageratamente attenti a una prestazione che rasenta la velocità, la perfezione, la complessità, ma anche la freddezza dell’esecuzione artificiale.
Chitarre, tastiere, batteria, con spolverate di cornamuse, violini, viole solisti. E una orchestra diretta da un David Campbell che nonostante le centinaia di registrazioni alle spalle, tra album di tutti i generi e colonne sonore, ha dichiarato che questo è il progetto più grande nel quale sia stato coinvolto. E c’è un coro. E ci sono i Dream Theater che si danno da fare a loro modo: pestando di brutto, alternando scambi tra solisti con la rapidità di uno scontro a fuoco, mettendo in vetrina oggetti preziosi e calando di pressione – e di interesse – con qualche ballata un po’ malferma.
Ci sono la grandeur con orchestra e coro in grande spolvero di Dystopian Overture, Brother, Can You Hear Me, Entr’acte; gli intricati intrecci strumentali di The Gift Of Music, A New Beginning, Moment Of Betrayal, The Path That Divides; episodi di collegamento meno ispirati come The Answer, Digital Discord e The Walking Shadow; brani che hanno tutto per diventare classici della band, per motivi differenti, come A Better Life, When Your Time Has Come, Chosen, The X Aspect; momenti teatrali perfetti per i live che verranno – dove metal e operetta si mischiano – come Lord Nafaryus e Three Days. E ancora la drammatica intensità di A Savior In The Square, A Tempting Offer, My Last Farewell; la mielosa Act Of Faythe che si riscatta con un finale “fantasmatico”; le gemme A Life Left Behind e Ravenskill; i rilevanti momenti di finta stasi costituiti da Heaven’s Cove, Begin Again, Losing Faythe, Hymn Of A Thousand Voices e quelli di reale pace espressi da Whispers On The Wind; l’epica romantica del dittico finale costituto da Our New World e Astonishing. E sparsi ad arte, nella tradizione dei Pink Floyd e di questo tipo di lavori, segmenti fatti di rumori ambientali di truppe in marcia, sibilare di malefiche macchine, voci, applausi, canti di uccelli, duellanti che incrociano le lame. Insomma, non manca nulla per soddisfare i fan della vecchia guardia, e magari conquistarne di nuovi, se avvezzi a questo tipo di suono, in cerca di emozioni forti sebbene scevre di sorpresa.
La vera notizia, guardando in ottica prog-metal, è che nonostante la durata quasi record del concept un solo brano supera i sette minuti e quasi tutti non raggiungono i cinque. In compenso ci sono 34 titoli che messi insieme fanno quasi un racconto breve. Il tour che porterà in giro il concept partirà a febbraio dall’Europa, con due date al leggendario Palladium di Londra. In Italia i DT saranno a Milano per tre date il 17-18-19 marzo 2016. Del tutto apprezzabile che abbiano scelto di esibirsi in teatro, l’ambiente ideale per proporre e godere uno show che promette di essere quanto mai ricco di trovate a effetto, trucchi, luci. Probabilmente il più complesso e ambizioso escogitato sin qui da John Petrucci. Sin qui, appunto…


Genere: Progressive Metal
Paese: USA
Qualità: 320 kbps 


TRACKLIST 

CD 1- Act I
 
01. Descent Of The NOMACS (01:10)
02. Dystopian Overture (04:50)
03. The Gift Of Music (04:08)
04. The Answer (01:52)
05. A Better Life (04:39)
06. Lord Nafaryus (03:28)
07. A Savior In The Square (04:13)
08. When Your Time Has Come (04:19)
09. Act Of Faythe (05:00)
10. Three Days (03:44)
11. The Hovering Sojourn (00:27)
12. Brother, Can You Hear Me? (05:11)
13. A Life Left Behind (05:49)
14. Ravenskill (06:01)
15. Chosen (04:31)
16. A Tempting Offer (04:19)
17. Digital Discord (00:47)
18. The X Aspect (04:13)
19. A New Beginning (07:41)
20. The Road To Revolution (03:35)


CD 2 - Act II

01. 2285 Entr'acte (02:20)
02. Moment Of Betrayal (06:11)
03. Heaven's Cove (04:19)
04. Begin Again (03:54)
05. The Path That Divides (05:09)
06. Machine Chatter (01:03)
07. The Walking Shadow (02:58)
08. My Last Farewell (03:44)
09. Losing Faythe (04:13)
10. Whispers On The Wind (01:37)
11. Hymn Of A Thousand Voices (03:38)
12. Our New World (04:12)
13. Power Down (01:25)
14. Astonishing (05:51)

 

lunedì 8 febbraio 2016

Seyminhol - The Wayward Son (2016)

L’idea di concept album (o “album a tema”) è stata storicamente figlia della voglia di contaminazione culturale degli autori della musica cosiddetta popolare, che cercavano di elevare la propria posizione nella scena da semplice prodotto commerciale a vera e propria opera, creando lavori con una struttura ben definita e diversa dalla semplice forma “canzone”, più vicina quindi alla forma “sinfonia”, intesa come insieme musicale composto da più “movimenti”.
In questo modo la sfida più importante era, ed è tuttora, quella di attirare l’attenzione dell’ascoltatore accorpando le idee in un unico “concept” nel quale poter esprimere compiutamente sia le proprie idee musicali, che eventualmente anche quelle politiche e sociali, a seconda dei casi, o più semplicemente una storia come L’Amleto di Sheakspeare.
Esempi di concept album si trovano nella discografia di numerosi artisti, da “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles a “The Wall” dei Pink Floyd passando per “Tommy” degli Who e “Pictures at an Exhibition” degli Emerson Lake e Palmer, e se il fatto di avere un tema concettuale sul quale sviluppare e raccontare una storia non richieda per forza un insieme di brani articolati, complessi e lunghi, spesso il risultato è sempre stato in questo senso e infatti uno dei generi che più ha utilizzato questa forma musicale è stato un certo tipo di rock progressivo, per esempio quello dei Dream Theater.
E qui arriviamo al disco dei Seyminhol, quartetto francese attivo dal 2005 con quattro dischi alle spalle e quest’ultimo lavoro intitolato “The Wayward Son” (Il Figlio Ribelle) in cui il “concetto” è l’opera shakespeariana “Amleto”, una dei lavori di drammaturgia più conosciuto e rappresentato al mondo e che racconta la tragedia di Amleto, principe di Danimarca, e delle sue vicissitudini familiari.
Il lavoro dei Seyminhol ha una stretta correlazione con l’Amleto originale e ne rappresenta una serie precisa di Scene e Atti, come potete leggere nei titoli dei brani. Il genere è decisamente progressive-rock/metal ed è composto da una serie di brani della durata di circa 4/5 minuti intervallati da parti più brevi che servono da intermezzo tra una scena e l’altra.
Raccontando una vera e propria storia, la prima vera parte cantata non poteva far altro che iniziare con un arpeggio lento su quale articolare il tema centrale della tragedia del principe, che poi si apre e sfocia nell’inno epico e maestoso di “The Spectre’s Confidence”. Dopo l’interludio del “The Oath of The Sword” si passa alla veloce introduzione di “Mantle of Madness” che con il suo riff coinvolgente fa entrare nel vivo della storia. Il brano è basato molto su sezioni di cassa alternate in ottavi e sedicesimi, con intermezzi epici conditi da cori e le parti orchestrali di Nicolas Pélissier che sottolineano e si intrecciano con le chitarre sempre di…Nicolas Pélissier! Sarà interessante dal vivo capire se ci saranno ad accompagnarli delle basi o un tastierista in carne ed ossa.
Altro interludio e si parte con “The Theatre of the Dream”, un mezzo tempo con una veloce introduzione dove il tema è suonato dalle parti orchestrali che si fanno più complesse, mentre la chitarra mantiene una funzione ritmica elementare fino a quando non entra la parte cantata, nella quale invece serve da supporto più importante alla sezione di basso e batteria. Più avanti, insieme al pianoforte, servirà invece da sostegno per la melodia del cantato. Un modo come un altro da chitarristi per non annoiarsi mai, compreso l’assolo a 3:45 che da un bel respiro a pieni polmoni a tutto il brano.
La veloce e variegata “Into The Black Chamber” non farebbe una brutta figura in qualche album di artisti del genere più famosi e offre nel coro femminile e nelle variazioni di tempo un punto di interesse. Le atmosfere epiche e cupe di “Shadows of Death” cristallizzano quello che dal titolo è un tema che riguarda la morte, anche se non capiamo cosa c’entri a 2:19 il doppio colpo di cassa e rullante Roland TR 808 (uno modello di batteria elettronica famoso fra chi produce dance), più che altro perché non gli viene dato seguito.
Per cercare di entrare meglio nel contesto del disco una delle cose da fare è quella di leggere i testi, che online non si trovano e sono il valore aggiunto del CD originale, anche se un’idea la possiamo avere dal “lyric video” di “Mantle of Madness”. Forse William Sheakspeare avrebbe qualcosa da ridire, ma non ci sentiamo di criticare troppo in questo senso vista la difficoltà per chi non è madrelingua di descrivere gli eventi della tragedia di Amleto, e mantenere una certa liricità dei testi. Sulla pronuncia invece il sottoscritto si lamenta sempre di come gli italiani cantino in inglese, questa volta occorre dire che anche i francesi non è che siano il massimo: sarà un problema per tutti i latini? Forse si. Però le nostre orecchie hanno comunque avuto un sussulto quando hanno sentito la rima della parola “mirror” con “terror” dove la seconda viene pronunciata come la prima, ma con la T davanti. Considerato che la rima funziona anche se le parole sono pronunciate correttamente, occorre una buona dose di pazienza e chiudere un occhio, o meglio un orecchio. Il concetto alla base del ragionamento è semplice: vuoi cantare? Studia canto. Vuoi cantare in inglese? Studia l’inglese. In questo caso ancora di più dato che per un disco del genere i testi fanno parte del “concept” dell’opera e non sono semplici articolazioni vocali create per dar fiato al cantante.
Tornando al disco, dopo la trascinante “The Conspiracy” dal riff centrale un po’ ruffiano, che alleggerisce così la tensione fornendo anche un punto d’aggancio mnemonico (importante nei lavori lunghi), e dopo l’interludio “Into The Cemetery” entriamo nella parte finale con “The Disguised Corpse” e “The Duellist” che trascinano verso l’epilogo della tragedia. Come andrà a finire? Probabilmente nel modo in cui è stato scritto l’originale.
Il disco di questo gruppo francese non è uno di quelli di facile ascolto iniziale. Di sicuro gli appassionati del genere progressive o epic non si spaventeranno della cosa e provvederanno ad approfondire con ascolti ripetuti. Alcuni brani potrebbero benissimo essere estrapolati dal contesto del concept e avere vita propria, su tutti “Mantle Of Madness” di cui potete vedere il video di seguito. Le composizioni sono ben articolate e non cascano spesso in facili cliché del genere, le orchestrazioni e le chitarre non sono mai noiose e, per finire, il suono complessivo del disco è uniforme e ben definito, nulla da invidiare a produzioni più famose secondo chi scrive.
Se siete amanti del genere ascolterete il disco dall’inizio alla fine, viceversa sarete interessati solo dai brani che superano i 3 minuti, otto sui diciannove che compongo il lavoro dei Seyminhol, “The Wayard Son”.


Genere: Symphonic Power Metal
Paese: Francia
Qualità: 320 kbps 

TRACKLIST
 01. A Night At Elseneur
02. Marcellus's Ascertaining
03. The Spectre's Confidence
04. The Oath Of The Sword
05. Mantle Of Madness
06. The Comedian's Parade
07. Theatre Of The Dream
08. The Agony Of A King
09. To Die, To Sleep
10. Into The Black Chamber
11. The Death Of Polonius
12. Shadows Of Death
13. Poem For A Maid
14. The Conspiracy
15. Into The Cemetery
16. A Disguised Corpse
17. The Great Hall Of The Castle
18. The Duellist
19. The Last March Of A Prince


venerdì 5 febbraio 2016

After Apocalypse - After Apocalypse (2015)

Difficile dire qualcosa di nuovo in un genere come il metal gotico dalle sfumature sinfoniche, troppe le band che la scena ha da offrire, anche se per un amante di queste sonorità la qualità delle proposte riamane mediamente alta, specialmente se si rivolge l’attenzione dentro i confini nazionali.
I bresciani After Apocalypse sono una giovane band che cerca di proporre qualcosa di nuovo, partendo da dove tutto è iniziato: i primi anni novanta e la scena olandese, quella dei primissimi The Gathering e Celestial Season.
Certo il doom gothic, priorità della scena di un ventennio fa, è addolcito dalla sempre presente componente sinfonica, ma il growl profondo e cavernoso ed il sempre presente clarinetto, rendono il sound del gruppo molto vicino alle atmosfere gotiche del tempo, lasciando le sonorità bombastiche ad altre realtà.
La voce della vocalist, di genere ma molto bella, fa il resto e After Apocalypse risulta cosi un buon lavoro, maturo e personale, anche se scritto da una band al primo passo nel mondo del gothic metal.
Il gruppo dosa bene dolcezza gotica e aggressività death, l’uso del clarinetto dona ai brani eleganza ed un tocco di originalità che non guasta e l’album scorre che è un piacere, tra momenti leggermente più sinfonici ed altri dove le chitarre si fanno sentire, ed escono estreme il giusto per accompagnare l’orco che dall’ombra duetta con la singer.
Ottime le trame ricamate dallo strumento classico in World Of Marzipan e Glorious Way, mentre in One Day le due voci creano l’effetto la bella e la bestia molto suggestivo, con le ritmiche che tengono un passo accelerato per uno dei motivi più interessanti dell’album.
White Page risulta più in linea con il symphonic odierno, anche se il clarinetto continua ad imperversare fino alla metà del brano, dove i ritmi si fanno marziali e pomposi, mentre Mechanical Mask, potente brano gothic, cede il passo alla conclusiva Sentence, brano dall’inizio cinematografico e dall’andamento più marcatamente potente e aggressivo nel suo incedere estremo.
In definitiva un bel debutto: consigliato agli amanti del genere, After Apocalypse è accompagnato da un’ottima produzione affidata al guru dell’Atomic Stuff Oscar Burato, come sempre nei studi dell’etichetta in quel di Isorella e, già di per sè,una garanzia di qualità. Senza dubbio, buona la prima.


Genere: Symphonic Metal
Paese: Italia
Qualità: 320 kbps
TRACKLIST
01. After Apocalypse
02. World of Marzipan
03. Dark Side
04. Glorious Way
05. Insight
06. Crying Moon
07. One Day
08. White Page
09. Mechanical Mask
10. Sentence

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giovedì 4 febbraio 2016

Mago de Oz - Finisterra Opera Rock (2015)

Utilizzando la stessa ricetta di “Celtic Land”, Txus e i suoi hanno deciso di festeggiare il quindicesimo anniversario di “Finisterra”, rilanciando lo storico album in una nuova veste, registrandolo ed arrangiandolo da capo, invitando amici e grandi nomi del panorama musicale spagnolo che, insieme alla band, hanno ridato vita ad uno degli album simbolo della carriera dei Mago De Oz.
La versione del 2000 di "Finisterra" si porta dietro due problematiche fondamentali: la prima sta nel fatto che è praticamente quasi impossibile ormai trovarlo nella sua forma fisica; la seconda riguarda la produzione, che di certo non era all’altezza dell’opera, e non dà giustizia a canzoni che rientrano in pieno nei capolavori del combo spagnolo. E’ ovvio che le atmosfere dell’originale non sono ripetibili, la line-up dei Mago, salvo la sua forza motrice (Txus, Moha, Frenk e Carlitos), è completamente cambiata e, soprattutto l’amato Josè Andrea, è stato sostituito, una cosa che mette di norma K.O. molti gruppi.

Non vi mentirò sul fatto che alcune finezze, alcuni acuti, e soprattutto il leggendario “Cabroneees!!!” di Josè manca molto, soprattutto per me che proprio con brani come “Satania”, “Fiesta Pagana” o “La Cruz De Santiago”, ho imparato a conoscere i folk-metallers ispanici. Fatte queste dovute premesse, “Finisterra Opera Rock” (questo è il nome dato al “reload” dell’album) è una delizia per le orecchie, non solo perché finalmente possiamo ascoltare i brani storici con quella potenza e bellezza dei suoni che mancava nel 2000, ma anche perché i Mago sono riusciti, da una parte a migliorare alcune asperità degli arrangiamenti originali, l’esperienza maturata nel tempo in questo senso è tastabile, tuttavia lo hanno fatto senza stravolgere più di tanto lo spirito dell’opera originale. Il lavoro corale creato insieme agli ospiti non dà poi il senso di un feticcio, che vuole in qualche modo cancellare ciò che è stato, ma è una vera e propria celebrazione di un momento basilare nella storia dei Mago De Oz. Ed infine l’interpretazione dei cantanti e ovviamente dello stesso Zeta, in alcuni frangenti è encomiabile, ascoltatevi ad esempio la struggente “Es Hora De Marchar”, cover dei Rainbow.

Cominciamo proprio con “Prologo”: la cornamusa questa volta è circondata da un’imponente orchestrazione, figlia degli arrangiamenti alla Nightwish, un po’ sulla scia dell’apertura del precedente album “Ilussia”.  Su “Satania” è stato tagliato qualche giro di violino per dar spazio ad uno degli assoli tecnici di basso da parte di Mainer, che nel contesto del brano fa tanto “Eagle Fly Free” degli Helloween. Suo sarà anche l’arpeggio di basso che va ad abbellire la sulfurea “Astaroth”, dove alla voce femminile troviamo Ailyn, cantante dei Sirenia. Su “La Cruz De Santiago”, il coro finale in up tempo dell’originale, è stato sostituito da una ritmica squisitamente power, forse meno personale è più standardizzata, ma l’impatto è devastante. Sia in questa che in “Satania” sono sono stati aggiunti cori gotici che pescano a piene mani dai nostrani Rhapsody (“Of Fire” e non). Se c’era una canzone che all’epoca consideravo minore, era lo scanzonato rock&blues di “Polla Dura No Cree En Dios”. L’aggiunta di una sessione di ottoni in pieno stile Blues Brothers, la rendono oggi davvero spassosa dall’inizio alla fine. “Kelpie”, la cover dei Jethro Tull, questa volta viene cantata dalla sempre in gamba Patricia, per il resto il brano rimane inalterato, così come rimane simile all’originale la delicata “Tres Tristes Tigres”, che però viene interpretata dalla splendida voce dell’ospite Diana Navarro (già sentita su “Gaia II”), che dona quel tocco poetico in più al pezzo. La soprano Pilar Jurado (già ospite su “Ilussia”) si prende la briga di riarrangiare in chiave operistica “Duerme…”, dando sfoggio a tutte le sue qualità di cantante lirica. I Mago De Oz decidono di riproporre “El Que Quiera Entender…” nella versione da anni suonata in sede live, quindi cestinando l’intro e l’outro dell’originale, ed incastrando l'indovinato passaggio reggae sulla seconda strofa. Senza nulla togliere all’impostazione classica dell’ex flautista Fernando, ammetto di apprezzare molto di più l’approccio di Josema Pizarro, in cui si sente un chiaro richiamo al progressive degli anni '70. Non a caso, proprio su “Kelpie”, ma anche nell’intermezzo latino-americano de “La Santa Compana”, mi ha ricordato molto quel pazzoide di Ian Anderson.

EPILOGO

Queste sono un po’ le maggiori differenze tra le due edizioni, quelle che saltano subito all’orecchio. Ma nell’album c’è molto di più, la stessa title-track incarna questa volta alla perfezione il senso di “Opera Rock”, sia nella sue parti più orchestrali, che in quelle più asciutte che si rifanno allo stile dei Savatage, o ancor meglio, vista la quantità dei musicisti coinvolti, alla Trans-Siberian Orchestra. Per quel che mi riguarda, da un punto di vista tecnico ed estetico non c’è niente da recriminare, e la qualità dei pezzi la conosciamo da tempo oramai. Visto il prezzo decisamente abbordabile, sopratutto se pensiamo che è un doppio cd, e vista la cura e le differenze musicali tra il vecchio ed il nuovo lavoro, che potrebbero solleticare anche chi ha già la versione originale di "Finisterra", mi sento di consigliarlo a tutti, ancor di più, ovvio, a chi ad oggi, non ha avuto occasione di far sua l'opera originale.


Genere: Heavy/Folk Metal
Paese: Spagna
Qualità: 320 kbps

TRACKLIST
Disc 1
1. Prólogo
2. Satania
3. La cruz de Santiago
4. La danza del fuego
5. Hasta que el cuerpo aguante
6. El señor de los gramillos
7. Polla dura no cree en Dios
8. Maite zaitut (Gwendal cover)
9. Duerme...
10. Es hora de marchar (Rainbow cover)

Disc 2
1. Fiesta pagana
2. El que quiera entender que entienda
3. Los renglones torcidos de Dios
4. La dama del amanecer (Kelpie) (Jethro Tull cover)
5. Tres tristes tigres
6. A costa da morte
7. La Santa Compaña
8. Conxuro
9. Astaroth
10. Finisterra
 
 
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mercoledì 3 febbraio 2016

Arrayan Path - Chronicles of Light (2016)

Arrayan Path have this uncanny knack to connect to you immediately and get you to continue listening to their tune. I am not exactly sure what causes this, but Chronicles of Light is certainly pretty powerful stuff, sprinkled with a lot of passion and authenticity. It is this extra kick that gets the reviewers attention for a record, even if the pipeline is desperately overflowing. Now, they just did exactly that to me with their 5th and newest album Chronicles of Light, signed to Pitchblack Records.
And it is this strange potion of Southern Mediterranean island-flavored #metal that did the trick. And the fact that the heavy influence of the excellent IV: Stigmata, their 2013 album, still persistently lingers at the back of my mind. Of course, Arrayan Path join us from beautiful Cyprus and this saddles them with some brownie points already. Blynd be lauded for that with Liber Sum (totally different style, but same location and amazingly good). The island features a somewhat mysterious and pretty tight community, showing off different kinds of #metal, coupled with a few jolly good studios that churn out good quality tunes.
Today’s 5-man band Arrayan Path rocked into existence back in 1997, but really only started to release music by Y2K or so (one demo each in ’99, then ’00). At that time they were actually called Arryan Path, but that did not sit too well with a great number of people. The band then decided to add an ‘a’ into their name, so that nobody would see them as being in cahoots with Nazism. After the demos were out however, not much was going on in terms of studio albums, the first one coming out in 2004. Only as of 2010 have we seen an acceleration of sorts, now culminating in Chronicles of Light, that latest output of Arrayan Path.
 
You know what really bothers me? The album is sometimes too smooth, too slick, not enough bad boy #metal in there. No scratchy surfaces, no sharp and rusty edges to draw some blood from. We get served with teflon tracks pieced together from well working parts of the #metal universe, when we should feel the sandy grit of the dusty dirt road in our teeth. All this comes spiced with lyrics that sometimes make me grind my teeth. But – then again – Arrayan Path have this somewhat mysterious ability to get glued to your frontal lobe and follow you around for a few hours. Well, dammit: Slick, way too slick – as I said before.
But cheese apart, in the line of epic Power and Heavy Metal these islanders are very good and up to par. Chronicles of Light projects a much more pronounced, at times kind of grungy Heavy Metal proper influenced style, leaning into Gothic Metal to an extent. But still a much lighter look and feel than the former more pronounced and much darker stance used in IV: Stigmata. And sometimes it is as if theirs is a tune straight out of Iron Maiden, galloping sound and all. Mixing and Mastering is pretty well done by Vagelis Maranis, who was already active for Arrayan Path on their former albums. No complaints there.
Of course all balancing in the mastering act leads to nothing if the band is not up to speed. I really like the stellar performance of Nicholas Leptos on vocals. Further you will find Paris Lambrou on bass, keyboards and programming, Socrates Leptos on guitars and again keyboard programming (wow, too many cooks), Alexis Kleideras on guitars and Stefan Dittrich on drums. This album also features an insane number of guest musicians and one is not sure which one gets on stage when.
 
Because Solomon Seed starts with this weird chant, seemingly from one of them nightmare YouTube videos and I just wondered where the fuck this would all end up. But then – luckily – #metal takes over quickly and we are back on track. With a tacky chorus to boot – good grief. Interesting start for Gabriel is Rising thrashily making its entrance, but then falling back into a more mainstream song structure. Speed Metal greets you in Orientis with a pretty cool solo in the middle, albeit a bit short. Riff this, baby – I like it! And whoever thought these guys cannot do rock ballads – just check out Ignore The Pain.
You know, I usually hate rehashed songs from other people with a passion. But exceptions confirm the rule, don’t they. The Stefan Korkolis cover of Sign of the Scorpion back from the ’80s called Scorpio is really well done. In English this time, no kidding. Chronicles of Light (the title song) all of a sudden takes a grungy, kind of doomish turn. Complete with some island cheese on this #metal platter of theirs, but I like the downturned beauty of this track. The juicy solo just rounds it up well. Then we move on to Iron Maiden again. OK, sorry, no we don’t, but Lex Talionis all of a sudden moves from Doom to Heavy Metal – galloping sound and all, albeit a weakened version. The other rock ballad worthy of mentioning is the Guns’n’Roses-esque The Last Eulogy, really powerful that one. This one beats the aforementioned Ignore the Pain and I wonder if three ballads out of a total of ten tracks is not a trifle too many.
Arrayan Path delivers a varied bag of island infused #metal, seasoned with a still reasonable amount of cheese. Chronicles of Light is by and large a good one in the Power Metal line, but not one that would blow me out of the water at every turn of the road. Sometimes I would have preferred a tad more grip to the tracks, a few more itches to be scratched. To me not the best they ever did. Yet, the album is powerful enough to keep your attention and rock you around some and is generally a pleasure to listen to. I am going to check them out live, for sure. 




Genere: Power Metal
Paese: Cipro
Qualità: 192 kbps

TRACKLIST
01. Solomon Seed 
02. Gabriel is Rising 
03. The Distorted Looking-Glass 
04. Orientis 
05. Ignore the Pain
06. Scorpio
07. Chronicles of Light
08. Lex Talionis 
09. December
10. The Last Eulogy

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Megadeth - Dystopia (2016)

Più o meno ogni nuova release dei Megadeth è preceduta da una moltitudine di rumors che focalizzano l’attenzione sulla stessa, la maggior parte riguardanti possibili cambi di formazione della band: dipartita di alcuni, ritorno di membri storici, reunion della leggendaria formazione di “Rust In Peace”, musicisti che vogliono distaccarsi dalla “casa madre” per intraprendere progetti solisti, scontri e divergenze con il boss Dave Mustaine. E’ proprio il guitar hero fondatore,  nonché frontman,  nonché mente compositrice che detta legge e spesso dispoticamente, imponendosi dittatorialmente  e licenziando chiunque provi ad intaccare la sua vena compositiva. Perché in fondo la mente e la struttura portante dei Megadeth sono Dave Mustaine ed il redivivo bassista Dave Ellefson i quali, nonostante diverbi passati (anche il fedele alleato è stato allontanato dalla band in passato), sono sempre stati presenti in coppia ad ogni release celebre del gruppo e sembra proprio che ora abbiano ritrovato le solide affinità di un tempo. Sanno quello che vogliono, e non vogliono intralci in fase di composizione. Ed è vero che i Megadeth hanno fatto la storia del thrash metal componendo capolavori leggendari, ma è anche vero che si sono traditi in più di un’occasione (Qualcuno ricorda l’album di pezzi vecchi riarrangiati, anche noto come “Th1rt3en”? Qualcuno ha detto “Risk”?). Divertente pensare che poco tempo fa fu proprio il “karma” a punire l’egocentrico frontman:  I due ormai ex-membri  Chris Broderick (chitarra) e Shawn Drover (batteria) hanno lasciato la band di propria sponte, per formare gli Act Of Defiance e dare vita alle loro idee e progetti, senza essere manipolati dal “mastermind” Dave. Inutile dire che in questo caso non si è fatto trovare impreparato, ed ha subito rimpiazzato i due musicisti con forse i migliori nel loro campo, Chris Adler (Lamb Of God) alla batteria ed il brasiliano Kiko Loureiro (Angra) come chitarra solista. Con questa formazione i Megadeth senza perdere tempo alcuno si sono ritrovati in studio, ed ecco a distanza di pochi mesi il primo dei grandi album attesi nel 2016: “Dystopia”.

Pronti, partenza, via le prime tre tracce del disco sono proprio i tre singoli, immediati e di facile ascolto, scorrono regalando una manciata di adrenalina grazie proprio alla bravura tecnica dei quattro musicisti. Tra i tre spicca proprio il primo singolo uscito “Fatal Illusion”, caratterizzato da un’efficace linea di basso del buon Ellefson e dal classico incandescente finale alla Megadeth: mitragliata di assoli che si intrecciano, sparati a velocità estreme dalla coppia d’asce Mustaine-Loureiro. Pezzi tiratissimi e violenti come non si sentivano da tempo, riff belli ed ispirati che però rimangono statici e si fanno ascoltare nella loro semplicità ed immediatezza.  I nuovi Megadeth mirano decisamente al consenso da primo, folgorante, impatto: forti di quella consapevolezza e sicurezza che possiedono solo le band con un grande nome alle spalle. Sembra che Dave non voglia osare e non voglia rischiare, riprende il discorso iniziato (ricominciato) nel 2009 con “Endgame”, per un ritorno nelle terre del thrash metal, terre ben conosciute e scoperte proprio dalla band stessa. Una traccia che aveva incuriosito molti, una volta uscita quella che sarebbe stata la scaletta dei brani inclusi in “Dystopia” era “Conquier Or Die!”, con quella parola tra due parentesi che accompagnava il titolo: Instrumental. Ebbene la traccia in questione è decisamente molto valida, vede la collaborazione in fase di composizione dell'ottimo Kiko Loureiro e si sente eccome. Gran bel pezzo strumentale che parte  con un arpeggio acustico decisamente dai toni western, per poi sfociare in una cavalcata thrash. Bello il riff portante, epico, azzeccata la doppia cassa martellante dell’ottimo e precisissimo Chris (prova maestosa la sua durante tutto il disco, sicuramente l’arma in più della band) e soliti superbi fraseggi di chitarre che seguono il tempo scandito il lontananza da minacciose campane. Decisamente bello, breve ma intenso. La successiva “Lying In A State” è il classico pezzo thrash made in Megadeth che parte cattivo e finisce brutale, sarà la gioia di tutti i fan e metterà d’accordo nuovi e vecchi, nostalgici e nuove leve.

“Dystopia” è sicuramente un buon disco, un prodotto ben confezionato e che presenta molti momenti salienti, anche se a tratti Mustaine e soci sembrano aver scelto la strada più semplice in fase di stesura: pezzi dotati certo di un’elevatura tecnica, intensi e ben suonati ma fin troppo brevi, struttura basilare delle canzoni e ritornelli orecchiabili. Eseguiti certamente in maniera impeccabile da questi maestri del genere, che come ribadito più volte da Mustaine hanno ricreato le stesse affinità degli anni ’80 e si sentono eccome, ma da questi quattro mostri sacri ci si aspetta davvero di più, ci si aspettano cambi di tempo che a sorpresa levano il fiato, quel riff che non sa di già sentito, imprevedibile, unico, d’esempio e di ispirazione (non state canticchiando “Tornado Of Souls”?).

In tanti sperano che la formazione attuale rimanga stabile a lungo, il motore è in fase di rodaggio ma rappresenta davvero una seconda giovinezza dei Megadeth. Ed i nuovi innesti si confermano davvero in forma smagliante. Un buon auspicio quindi ad un frontman ed una band tanto acclamati ed amati dal grande pubblico, che con questa release aggiungono una manciata di pezzi validi ad una già cospicua setlist. Faranno infatti sicuramente terra bruciata e spargeranno sangue durante la tournée mondiale (sperando che Chris riesca a gestire al meglio la doppia collaborazione con i Lamb Of God e Megadeth). Una carriera di una band che nonostante numerosi passi falsi e continui cambi di formazione periodicamente sorprende, e se nel 2009 quell’”Endgame” lasciò di stucco molti, questo “Dystopia” è il vero degno erede a distanza di ben due album. Quando si pensa siano prossimi allo scioglimento ecco che i Megadeth si rimettono in gioco e lasciano il segno, più toccano il fondo e più soprendono quando si rialzano. Forse non sono mai stati una garanzia assoluta, forse non proprio una band che ha nella continuità il suo punto di forza, ma Dave Mustaine sa quando è il momento di rialzarsi, e lo fa sempre con dignità e classe.


Genere: Heavy/Thrash Metal 
Paese: USA
Qualità: 320 kbps


TRACKLIST

01. The Threat Is Real [4:22]
02. Dystopia [4:59]
03. Fatal Illusion [4:16]
04. Death From Within [4:47]
05. Bullet To The Brain [4:29]
06. Post American World [4:26]
07. Poisonous Shadows [6:03]
08. Look Who's Talking (Bonus Track) [4:14]
09. Conquer Or Die [3:33]
10. Lying In State [3:34]
11. The Emperor [3:52]
12. Last Dying Wish (Bonus Track [3:49]
13. Foreign Policy (Fear cover) [2:28]


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martedì 2 febbraio 2016

Running Wild - Shadowmaker (2012)

Sette anni dall’ultimo lavoro in studio, tre dal concerto d’addio al Wacken Open Air, più un best of e il live appena citato sia in versione Dvd che Cd. Pareva la fine di un’era, di un mito a tutto tondo del Metallo con la emme maiuscola da parte del Capitano di Lungo Corso Rolf Kasparek da Amburgo, di fatto proprietario di tutto quanto fa Running Wild probabilmente da sempre. Già, perché negli ultimi tempi parlare di band era decisamente fuori luogo: la visione romantica di un gruppo di persone indirizzate verso un sogno fatto musica non reggeva assolutamente, di fatto i Running Wild erano un solo project di Herr Rock’N’Rolf Kasparek. A rincarare la dose, poi, il nuovo corso space-punk-glam-rock di Rolf, quei Toxic Taste che lo vedono alla chitarra con l’ulteriore pseudonimo di T.T. Poison e i capelli, accorciati, colorati di rosso.
Ma, si sa, le vie del Metallo sono infinite e un bel giorno di fine 2011 il buon Rolf decide di spiegare al mondo tramite un video il perché del ritorno su disco del progetto Running Wild. L’idea è quella di fare uscire materiale relativo al vecchio catalogo del gruppo inserendo delle bonus track. Non essendoci brani di scarto o di risulta del passato da riutilizzare, Rock’N’Rolf inizia a scrivere e, si sa, da cosa nasce cosa, vista la facilità con la quale nascono i nuovi pezzi. Balza nell’aria un’idea: ma perché non riesumare il moniker Running Wild, visto che orde di fan famelici attendono in cuor loro questa notizia da anni?
Ecco quindi il nuovissimo Shadowmaker, album contenente dieci pezzi inediti e un’aspettativa fuor dal comune da parte dei defender di tout le monde. Le fortune di una band si costruiscono anche sull’iconografia, Adrian e il look piratesco insegnano ma evidentemente non abbastanza, vista la copertina minimale adottata per il disco. A onor del merito, va sottolineato che la versione limited edition in plastica completamente nera con stampato l’artwork argentato sopra fa la sua porca figura, ma è altrettanto vero che da un ritorno cotanto altisonante ci si attendeva qualcosa di ben diverso. In antitesi il booklet, composto da bei disegni – grandioso quello legato a Locomotive, che rimanda a Orgasmatron dei Motorhead - a supporto di ogni brano completo di testi ma privo di dati tecnici degni di nota per poter inquadrare al meglio anche il processo di lavorazione. Quello che si evince di significativo è che Peter Jordan abbia suonato insieme con Rolf le chitarre e partecipato ai cori. Non vi è alcuna menzione riguardo basso e batteria.  
Spararsi d’un fiato tutto Shadowmaker da zero con l’emozione alle stelle della prima volta e la salivazione azzerata equivale a fare harakiri, quindici minuti presi a caso da un disco come Black Hand Inn – il concetto potrebbe essere traslato alla stessa maniera nei confronti di Port Royal, Under Jolly Roger o Pile Of Skulls - annichiliscono le altrettante tracce targate 2012 – se prese in blocco - del project-solo Running Wild. E’ con la morte nel cuore che si prende atto che la favola è finita, morta e sepolta come qualche galeone battente bandiera nera con teschio bianco al centro in fondo agli abissi.
Non basta la rock’n’rolleggiante e particolarmente ben riuscita Piece Of The Action a sollevare le sorti di un album inconsistente, dal suono che pare artefatto – a partire dalla batteria -  totalmente privo di quell’onda d’urto metallica ribollente e fumigante che ha fatto l’epopea dei Running Wild. Patetici i tentativi di far risorgere le gesta piratesche tramite i quattro minuti e mezzo di Riding On The Tide, buona per una B-side o forse nemmeno quello nei tempi d’oro. Stessa sorte per Sailing Fire, purtroppo…
Black Shadow è talmente strascicata da risultare imbarazzante anche all’ascolto, qualche sussulto positivo lo si prova nella veloce I Am Who I Am, per fortuna. Notte fonda anche in Me And The Boys, che definire scolastica è puro eufemismo così come la lunghissima e loffia Dracula segna il passo se solo confrontata con altri celeberrimi passaggi articolati scritti nel luminoso passato di Rolf tanto che il gran riffone reggente di Shadowmaker – la title track – porta una ventata di carica positiva che sa di manna dal cielo.
Per carità, qualcosa di buono c’è, ma non basta, Shadowmaker non è all’altezza del moniker che porta in fronte  – e delle aspettative dei fan - tenendo conto che i Running Wild sono uno di quei gruppi – rari – che hanno fatto mediamente uscire lavori di alta qualità metallica. Qualche responsabilità ce l’ha pure la produzione, tutt'altro che avvolgente, che non rende giustizia ad Adrian. L’album in quest’ottica cade miseramente segnando il record di disco più brutto di una onorevolissima carriera iniziata nel glorioso 1984, dopo anni di demo, quando ancora la critica illuminata del tempo li definiva la brutta copia dei Judas Priest.
A ripensare anche solo a The Rivalry – il pezzo – piuttosto che a Soulless – per fermarsi solamente a due, vengono le lacrime agli occhi… Al di là di questo, la magia del passato dei Running Wild non potrà violarla mai nessuno, nemmeno un disco poco riuscito dalla copertina nero-argento. La nota positiva è che in virtù di Shadowmaker vi sarà la possibilità di ammirali ancora dal vivo, sperando che da qui al 2013 Rolf sappia tirar su per bene le braghe…


Genere: Heavy/Speed Metal
Paese: Germania
Qualità: 320 kbps


TRACKLIST
 
    1. Piece of the Action        
   2. Riding on the Tide        
3. I Am Who I Am          
4. Black Shadow        
5. Locomotive        
6. Me & the Boys        
7. Shadowmaker        
8. Sailing Fire        
9. Into the Black        
10. Dracula      


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lunedì 1 febbraio 2016

Kiske/Somerville - City of Heroes (2015)

A distanza di cinque anni dall’esordio discografico, che ha diviso gli ascoltatori fra chi lo riteneva un lavoro splendido e chi poco meno di un abominio, torna sugli scaffali un prodotto nato dalla collaborazione fra Amanda Somerville e Michael Kiske; fortemente voluto dalla Frontiers Records, il sodalizio puntava a far coesistere una cantante talentuosa e nota per la sua collaborazione con molteplici band sinfoniche (Epica, After Forever, Avantasia fra le tante) ed un pezzo da novanta della storia del metal, benché lo stesso Kiske si sia effettivamente riavvicinato al genere che lo ha reso celebre solo negli ultimi anni, dopo diversi lavori totalmente differenti dai bei tempi dei due leggendari Keeper. Il primo album targato Kiske/Somerville, come dicevamo poc’anzi, ha tuttavia creato qualche discussione: benché la qualità media dei brani fosse nel complesso buona e la produzione splendidamente curata, paradossalmente proprio i due cantanti sembravano costituire l’anello debole della catena. Ciò, chiaramente, non si è verificato a causa della loro bravura, totalmente fuori discussione, bensì a causa di una certa freddezza e di una alchimia non impeccabile. Saranno riusciti i nostri a limare questo difetto nel qui presente City of Heroes, fresco di stampa? Scopriamolo assieme.

Come per l’eponimo esordio, la composizione dei brani è affidata al bassista Mat Sinner, noto per i suoi lavori con Sinner e Primal Fear ed al polistrumentista Magnus Karlsson, la mente dietro al progetto Allen/Lande e già al lavoro con Kiske nei Place Vendome. Un pezzo, inoltre, è a firma di Somerville e di Sander Gommans, celebre per esser stato il chitarrista degli After Forever e, benché la cosa non aggiunga o tolga nulla all’album, da due anni marito della stessa vocalist: gli ingredienti per far bene, insomma, ci sono tutti, a patto che siate consapevoli del fatto che l’anima dell’album e del progetto è squisitamente AOR. Pronti, via, a dar fuoco alle polveri provvede la title-track, inaugurata da un buon riff di chitarra e da una batteria efficace; il primo ad entrare in scena è Kiske e, come ogni volta, sentire la sua voce non può che provocare un brivido. Meno entusiasmante, viceversa, è l’ingresso di Amanda Somerville, intrappolata in tutto il brano su tonalità medie che non le rendono giustizia. Come era facilmente immaginabile, i due si uniscono sul ritornello, un po’ debole nella parte conclusiva ma comunque piacevole, per quanto probabilmente le strofe siano meglio costruite. Le tastiere si prendono la scena sulla seconda traccia, Walk on Water, il cui punto di forza è viceversa proprio il ritornello: è piuttosto classico e prevedibile, sia chiaro, ma appare meglio riuscito rispetto alle strofe, non eccezionali. Il primo brano davvero ben riuscito e congegnato in tutte le sue parti è dunque Rising Up, che unisce strofe intriganti ad un ritornello arioso e godibile, con le tastiere che puntellano il tutto senza essere invasive ed una chitarra che, quando serve, fa sentire la propria presenza in maniera efficace. Certo, lo schema “Prima strofa a Kiske, seconda a Somerville e via tutti assieme nel ritornello” è un po’ abusato, ma del resto un progetto a due voci comporta necessariamente questo genere di situazione. Salvation è un altro brano riuscito, un pezzo dall’attitudine fortemente teatrale dove anche la vocalist mostra finalmente di cosa è capace, con Kiske che naturalmente non demerita e tastiere dolci ed eleganti al tempo stesso. Dopo il classico avvio in sordina, insomma, il lavoro sembra aver preso una buona piega, convenite? Peccato che Lights Out, per quanto impeccabile dal punto di vista strumentale e con la miglior prestazione di Mrs. Gommans fino ad ora, sia un po’ più banalotta. Poco male, Breaking Neptune (composta dalla coppia, in tutti i sensi, Somerville/Gommans) ci riporta su livelli consoni alle abilità dei musicisti coinvolti, prima della classica ballad da accendini, intitolata Ocean of Tears, evocativa e splendidamente interpretata, ma sinceramente noiosa prima dell’esplosione sonora nella seconda metà. Una certa altalena qualitativa, insomma, assurge indubbiamente a difetto di questo nuovo lavoro del sodalizio Kiske/Somerville. L’altalena, però, presuppone che a momenti bassi ve ne siano anche di alti: Open Your Eyes e Last Goodbye, dove l’intesa fra i due cantanti funziona a meraviglia (finalmente, verrebbe da dire!), appartiene indubbiamente ai secondi. Avvicinandosi alla conclusione del disco, i nostri ci riprovano con la ballatona, After the Night is Over, prevedibile come la precedente, ma indubbiamente meglio riuscita, grazie ad un ritornello intrigante e ben interpretato dai nostri e ad un lavoro di chitarra impeccabile da parte di Karlsson. Run with a Dream parte in modo discutibile, ma cresce col passare dei secondi, mettendo in mostra un bel chorus melodico, per quanto forse eccessivamente infarcito di tastiere; infine, è un peccato trovarsi di nuovo a che fare con un brano sottotono, dopo il buon livello della seconda parte di City of Heroes, ma Right Now non eguaglia la qualità delle tracce precedenti e non bastano le ugole dei due cantanti per migliorare il giudizio.

La maniera migliore per giudicare questo album e, in fondo, l’intero progetto Kiske/Somerville è innanzitutto comprendere che abbiamo a che fare, appunto, con un progetto: dubitiamo fortemente che i e musicisti abbiano provato assieme i brani ed è estremamente più facile pensare che le due menti dietro ai brani abbiano composto il tutto, fornendo poi ai cantanti dei prodotti “preconfezionati” su cui limitarsi ad incidere le proprie parti. Tenendo presente questo fatto e considerando che stiamo parlando di AOR, il risultato non è affatto malvagio: il disco è altalenante, lo abbiamo notato, ma nel complesso sono più i brani funzionanti che quelli non riusciti, soprattutto nella seconda metà di City of Heroes. L’affiatamento fra i due cantanti, seppur ancora non certo impeccabile, è migliorato rispetto all’esordio e, sebbene Amanda Somerville risulti a tratto un po’ sprecata, mostra maggiormente le propri abilità. Poco da dire, invece, sulla prestazione degli altri artisti coinvolti: Kiske è Kiske e, anche se tutti noi lo preferiamo impegnato a sforzare le ugole su melodie trascinanti, con la sua voce nobilita ogni cosa che tocca, mentre Kalrsson e soci svolgono bene il loro compito. Il problema principale, insomma, risiede proprio nelle canzoni in sé, non sempre brillanti, ma tutto sommato ci accontentiamo di avere a che fare con un prodotto già migliore rispetto alla prima fatica del duo Kiske/Somerville



Genere: Melodic Heavy Metal
Paese: Germania
Qualità: 320 kbps 

TRACKLIST

01. City of Heroes
02. Walk on Water
03. Rising Up
04. Salvation
05. Lights Out
06. Breaking Neptune
07. Ocean of Tears
08. Open Your Eyes
09. Last Goodbye
10. After the Night Is Over
11. Run with a Dream
12. Right Now
 
 

Magic Kingdom - Savage Requiem (2015)

Dushan Petrossi è un musicista che non si riposa mai a quanto pare, e, mentre gli Iron Mask sono in pausa dopo “Fifth Son Of Winterdoom” e degli Arms Of War non si sa nulla di ufficiale, cosa fare di meglio se non rimettere mano ai Magic Kingdom, fermi da ormai cinque anni? Ecco quindi arrivare questo nuovo “Savage Requiem”, quarto lavoro sulla lunga distanza per la band capitanata dal chitarrista belga. Come da tradizione la line-up è stravolta completamente rispetto al precedente “Symphony Of War”, con il ritorno, almeno ufficiale, a una formazione a quattro membri come vista in “Metallic Tragedy”. A livello di sound la band compie un passo indietro rispetto a “Symphony Of War”, riducendo in maniera sensibile l’epic power metal di estrazione Rhapsody (avete capito a cosa serviva Olaf Hayer nella band?) per tornare al metal neoclassico di scuola Malmsteen molto più nelle corde di Petrossi. Il nuovo cantante Christian Palin se la cava egregiamente, dotato di un tono vocale che ricorda molto Jorn Lande, e molto bene ne escono anche Vassily Molchanov e Michael Brush alla sezione ritmica. Purtroppo anche “Savage Requiem” non è immune al difetto che affligge la maggior parte dei lavori firmati Dushan Petrossi, la mancanza di ispirazione; questo disco è suonato alla perfezione e prodotto alla perfezione, ma manca di ispirazione vera, suonando più come un disco scritto di mestiere da un grande professionista con una grande esperienza alle spalle che come un album composto con le idee derivate dalla passione e dalla gioia di suonare. Comunque un album molto sopra la sufficienza, dieci brani che piaceranno molto a chi ha amato il Malmsteen di fine anni ’90. Bellissima infine la copertina.


Genere: Symphonic Power Metal
Paese: Belgio
Qualità: 320 kbps CD-Rip + Lossless APE

TRACKLIST
01. In Umbra Mea
02. Guardian Angels
03. Rivals Forever
04. Full Moon Sacrifice
05. Ship Of Ghosts
06. Savage Requiem
07. Four Demon Kings Of Shadowlands
08. The Mirage (Exclusive Bonus Track)
09. With Fire and Sword
10. Dragon Princess
11. Battlefield Magic
12. Dragon Princess (Acoustic)

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